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e morale che non ne limitano affatto la forza ma
amplificano, a volte in maniera parossisitica, l'energia
creatrice. Un'energia enorme e paragonabile a quella di
pochissime altre figure della storia come Michelangelo
o Bach per esempio.
In molti raccontano di un Beethoven grande
improvvisatore, musicista istintivo e “selvaggio” ma
anche inquieto e languido e capace di grandi finezze
strumentali. Tra le tante descrizioni della musica di
Beethoven quella del violinista Giovanni Maria Cambini
è tra le più sinteticamente pregnanti, descrisse la
musica di Beethoven come “Colombes et crocodiles”,
un'immagine che esprime benissimo la caratteristica
principale della sua musica, l'estremizzazione degli
affetti. Questa componente, sviluppata partendo dalla
scuola compositiva ed estetica del tardo Settecento, in
Beethoven si esaspera e trova espressione all'interno di
un travaglio formale senza precedenti. Le Sonate per
violoncello e pianoforte hanno la particolarità di essere
un corpus che nella simmetria di due sonate op.5
(1796), una op.69 (1808/09) e di nuovo due op.102
(1815/16) rappresentano tre momenti chiave della sua
storia compositiva. Nell'arco di vent'anni il linguaggio di
Beethoven si evolve senza mutare nella sua necessità
originaria di espressione all'interno di una concezione
formale personalissima e talmente forte da avermi
sempre fatto pensare al marmo di una statua
michelangiolesca. Come faccia una pietra a raccogliere
quella forza, quelle passioni umane e divine, è un
mistero tanto quanto vedere le forme beethoveniane
contenere l'immensa energia stipata al loro interno.
Energia inimmaginabile ancora oggi ma ancor di più se
pensata in relazione al periodo storico in cui venne alla
luce. Le due sonate op.5, lavoro quasi di presentazione
del giovane compositore scritte in occasione di un
viaggio conclusosi a Berlino e dedicate a Federico
Guglielmo II di Prussia, non hanno precedenti, si
innestano come forma ex novo e quasi esplodono di
vita nella loro ipertrofica forma.
La scelta di affrontare questo repertorio su strumenti
originali nasce da considerazioni come queste e da
un'ammirazione incondizionata per un genio che ancora
a 250 anni dalla nascita ci pone domande ancora
insolute. Lontano da volontà filologiche (che pur
guidano il mio studio da anni ma devono far parte del
lavoro di bottega del musicista e in quanto tali rimanere
tra gli “attrezzi” al pari di diteggiature, studio, espedienti
tecnici e non confondersi con il risultato musicale)
l'obiettivo era quello di confrontarsi con i "limiti", gli
stessi in cui si trovavano Beethoven e i suoi
contemporanei. Non ritengo infatti che il
limite sia un vulnus nella creazione ma uno
stato ineludibile della condizione umana che
solo in questo stato può ambire all'utopia,
irrealizzabile appunto ma eticamente ed
artisticamente irrinunciabile. Proprio in
questa limitatezza, che sia lui che i suoi
contemporanei testimoniano in molte
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